Gentile Direttore,
ho seguito il (frettoloso) convegno relativo al restauro del castello e, dalla
lettura della stampa locale, noto che sul progetto sorgono perplessità sia da
parte di alcuni cittadini che da parte di Italia Nostra. Essendo in
quell’occasione mancato un dibattito, desidero segnalare dubbi e richieste di
chiarimenti che, come me, alcuni presenti avrebbero voluto esternare. Devo
premettere che, quando si devono effettuare interventi di recupero tanto
importanti, è normale che gli interessati (e immagino che così sia avvenuto)
decidano prima quale tipologia di restauro seguire. Il termine latino restaurare
è composto da un prefisso re che significa movimento inverso e dal verbo
statuere (porre, collocare, costruire, innalzare, ecc). “Restatuere”:
ricostituire, riportare cioè, attraverso tecniche idonee, le parti danneggiate
il più vicino possibile allo stato originario, con il fine primario di
conservare. C’è quindi un restauro conservativo che ha come obiettivo
primario quello di salvare l’esistente, a fianco del quale è nata poi la
tecnica del “ripristino”, del rifacimento cioè, con diverse tecniche e
materiali, delle più o meno note parti mancanti (ad esempio la torre del
castello sforzesco di Milano o il ponte di Castelvecchio che a Verona attraversa
l’Adige). E c’è poi un restauro
“creativo” come alcuni lo definiscono, oggi di moda: realizzazioni inedite
da affiancare a quelle esistenti, basate su interpretazioni soggettive dei
progettisti, ispirate in qualche modo a valenze storiche ma anche destinate a
soddisfare le esigenze del committente. Su quest’ultima tipologia di
interventi, al convegno abbiamo sentito abbattersi le critiche del Prof. Sgarbi
che però non ha detto cosa pensa dell’innalzamento di una torre, prevista dal
progetto di restauro (creativo, in questo caso) del castello di Novara. È una
torre che a me sembra poggi le fondamenta su... qualche peccato di presunzione.
Perché collocare in un sito così ricco di storia, nel cuore della città, una
torre “inventata”, costruita con materiali attuali che poi dovranno essere
camuffati quando, secondo illustri studiosi, la torre originale esiste già,
mozzata, proprio dove dovrà sorgere la nuova? Perché ricorrere a questa opra
di fantasia, motivata da ragionamenti forzati, se la torre da restaurare (da
“re-stituire”) è lì, inglobata nella struttura, che attende di tornare a
svettare? E perché al convegno non illustrare i motivi per i quali si è
ritenuto di baipassare gli studi dell’ ing. Bronzini del 1910? Ma soprattutto,
perchè non ritrovare l’impatto visivo esterno originario (una scenografia che
sarebbe spettacolare) ricorrendo ad un restauro di ripristino, mantenendo pure
all’interno le nuove strutture progettate per le diverse fruizioni previste?
Qualcuno del progettisti potrebbe dare risposta a queste legittime richieste di
chiarimento? Personalmente ritengo che sarebbe opportuno riflettere ancora un
momento, prima di edificare una struttura che, una volta fatta, nessuno potrà
più rimuovere. Il coraggio di un ripensamento sarebbe certamente apprezzato da
tutti molto più della fretta di concludere.Suggerirei
comunque a chi è interessato a questi problemi, di leggere (dovrebbe essere
obbligatorio per tutti gli amministratori pubblici) sia un prezioso libricino di
Pier Luigi Cervellati “L’arte di curare la città”, edito da Mulino nel
2000 sia (rifuggendo da qualsiasi polemica come potrebbe far pensare il titolo)
l’attualissimo “I vandali in casa” di Antonio Cederna, fondatore di Italia
Nostra, pubblicato nel 1956 e che Laterza ha in questi giorni rieditato. Grazie
dell’ospitalità e cordiali saluti.
Giuseppe Venturino
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